DIRITTO D'AUTORE


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24 settembre 2012

109/12. Domanda di scioglimento della comunione proposta all’interno del giudizio di divorzio. È mediazione obbligatoria? Questione di legittimità costituzionale per mancanza di formulazione chiara della norma (Osservatorio Mediazione Civile n. 109/2012)


=> Trib. Tivoli, 23 maggio 2012

Con la pronuncia in commento, viene solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 con riferimento agli articoli 11, 24, 111, 117 della Costituzione nonché agli art. 6 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo ed agli artt. 47, 52 e 53 della Carte dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui viola il principio di non incertezza del diritto non prevedendo, il decreto legislativo in tema di mediazione, una formulazione della normativa di comprensione univoca e chiara del proprio significato (I).

In particolare, nel caso in esame, all’interno di un giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, veniva proposta domanda di scioglimento della comunione insistente sulla casa coniugale, con riferimento alla quale veniva eccepito l’improcedibilità del ricorso, ove non preceduto dalla mediazione obbligatoria, trattandosi di materia per la quale sarebbe obbligatorio l’esperimento del tentativo di mediazione ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010.
Il tribunale si domanda pertanto se la procedura sia obbligatoria anche in caso di giudizio divisorio introdotto nell’ambito di controversia in materia di diritto di famiglia (e segnatamente in un giudizio di divorzio).

Il tribunale nota al riguardo che:
-      “la presente controversia, in quanto avente ad oggetto anche una domanda di divisione, debba essere oggetto di mediazione obbligatoria. Non sono infatti previste deroghe in ipotesi di domande plurime che abbiano anche diversi petita”;
-      “tuttavia, la controversia segue – non a caso – un rito speciale, nel quale è già prevista una attività di mediazione, rispetto alla quale l’istituto di cui all’art. 5 del d.lvo 28/2010 finirebbe con l’aggravare il processo ed allungarne i tempi”;
-      “per contro, potrebbe offrire elementi utili – anche in considerazione della diversa dinamica e del separato iter, connotato da specifiche competenze degli addetti alla mediazione - che potrebbe agevolare la definizione della parte economica relativa alla divisione”.
Vi sono dunque sia elementi a favore che elementi contrari alle diverse soluzioni possibili.

Pertanto, “alla luce della assoluta genericità della norma in questione, ritiene quindi il giudice che non sia possibile esprimersi nel senso di una chiara intelligibilità ed univoca portata precettiva della norma. Perciò una qualsiasi interpretazione si tradurrebbe in una vera e propria scelta arbitraria del giudice, che finirebbe con il sostituirsi al legislatore, piuttosto che farsene mero interprete. Non vi sono invero ad avviso di questo giudice riferimenti “ermeneutici” – né di carattere letterale, né sistematico, né logico - che possano giustificare una univoca interpretazione”.


Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 101/2012

Tribunale di Tivoli
Sezione civile
23 maggio 2012
Ordinanza

Il Tribunale di Tivoli, nella persona del Giudice unico dott. Alessio Liberati, nel procedimento ---ha pronunciato la seguente

ORDINANZA
con la quale si solleva di ufficio
QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

IN FATTO

L’attrice ha citato in giudizio il convenuto in data 9.9.2011, chiedendo a questo Tribunale di voler dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio e di voler provvedere allo scioglimento della comunione dell’immobile destinato a casa coniugale.
Il convenuto si è costituito in data 28.2.2012, chiedendo anch’egli la dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio e la revisione, in suo favore, delle condizioni economiche, essendo il figlio divenuto maggiorenne ed avendo attività lavorativa propria, ancorché saltuaria. Si è invece opposto alla istanza di divisione dell’immobile ed ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità della relativa domanda.
In sede di udienza, il 23.5.2012, il convenuto ha chiesto inoltre pronunciarsi l’improcedibilità del ricorso, ove non preceduto dalla mediazione obbligatoria, trattandosi di materia per la quale sarebbe obbligatorio l’esperimento del tentativo di mediazione ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010.
Il tribunale ritiene che la domanda di scioglimento della comunione insistente sulla casa coniugale sia ammissibile, potendo certamente essere introdotta in sede di divorzio.
Si pone quindi il problema se la controversia rientri in quelle previste dall’art. 5 del d.lgs. 28/2010, e segnatamente nella materia della divisione, o, rectius, se la procedura sia obbligatoria anche in caso di giudizio divisorio introdotto nell’ambito di controversia in materia di diritto di famiglia (e segnatamente in un giudizio di divorzio), posto che prevede un rito specifico con apposito tentativo di conciliazione.
Il problema in diritto concerne quindi la condizione di procedibilità del giudizio, che è certamente rilevante e prodromica per la successiva prosecuzione del giudizio, dovendo nel caso il Giudice assegnare i termini di legge per esperire la mediazione.

IN DIRITTO

LA NORMA IN QUESTIONE E LA SUA INTERPRETAZIONE

L’art. 5 del d.lgs. 28/2010 sancisce che: “1. Chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, e' tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell'articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
L'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione e' gia' iniziata, ma non si e' conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all'articolo.
Allo stesso modo provvede quando la mediazione non e' stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni. ”
Al successivo comma 4 sono previste espressamente le esclusioni: “I commi 1 e 2 non si applicano:
a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione;
b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all'articolo 667 del codice di procedura civile;
c) nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all'articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile;
d) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all'esecuzione forzata;
e) nei procedimenti in camera di consiglio;
f) nell'azione civile esercitata nel processo penale.”

IL SIGNIFICATO NON UNIVOCO DELLA NORMA, QUANTO ALLA DEFINIZIONE DELL’AMBITO DI APPLICAZIONE, IN TERMINI GENERALI

Si pone – con riferimento alla fattispecie in oggetto - il dubbio relativo all’ambito applicativo della norma, ed in particolare alla sua obbligatoria esperibilità anche nel caso in cui la domanda sia inserita in un ricorso avente altro e totalmente diverso oggetto, nel caso di specie la materia divorzile.
Affrontando il tema in termini generali, la lettura delle eccezioni di cui al successivo comma 4, poc’anzi riportato, porterebbe ad escludere dall’ambito di applicazione le sole fattispecie espressamente indicate.
Se ne dovrebbe concludere che la presente controversia, in quanto avente ad oggetto anche una domanda di divisione, debba essere oggetto di mediazione obbligatoria. Non sono infatti previste deroghe in ipotesi di domande plurime che abbiano anche diversi petita.
Tuttavia, la controversia segue – non a caso – un rito speciale, nel quale è già prevista una attività di mediazione, rispetto alla quale l’istituto di cui all’art. 5 del d.lvo 28/2010 finirebbe con l’aggravare il processo ed allungarne i tempi.
Per contro, potrebbe offrire elementi utili – anche in considerazione della diversa dinamica e del separato iter, connotato da specifiche competenze degli addetti alla mediazione - che potrebbe agevolare la definizione della parte economica relativa alla divisione.
Vi sono dunque sia elementi a favore che elementi contrari alle diverse soluzioni possibili e, ad avviso di questo giudice, manca un criterio “dirimente”.
La norma, come detto, non è chiara e non è suscettibile di univoca interpretazione, non avendo previsto alcunché in merito al rapporto tra riti diversi. In sostanza non è in grado di offrire quella certezza della regola che deve essere propria della norma (e che ne connota la funzione) rimettendo il compito di legiferare “di fatto” al Giudice, con ciò delegando all’autorità giudiziaria una vera e propria attività normativa, anziché ermeneutica e rischiando di porre le parti (gli utenti della Giustizia) in una inaccettabile situazione di incertezza giuridica.
Deve dunque verificarsi la compatibilità costituzionale di un simile legiferare sotto il profilo della incertezza che deriva nel diritto.

SULLA RILEVANZA DELLA QUESTIONE NELLA FATTISPECIE ALLA ATTENZIONE DEL TRIBUNALE

Va precisato che la questione che si sottopone alla attenzione del Giudice delle Leggi è di assoluta rilevanza per la fattispecie alla attenzione di questo Tribunale.
Nel caso di specie la questione di diritto appena descritta appare di imprescindibile soluzione per la decisione, trattandosi di norma che prevede una questione prioritaria rispetto ad ogni altra analisi e considerazione in rito ed in merito: la improcedibilità del giudizio (rilevabile ex officio) in caso di mancato esperimento della mediazione obbligatoria.
Si deve quindi preliminarmente verificare se la norma sia costituzionalmente legittima, nella sua genericità e quindi applicabile, e se la formulazione adottata lasci al giudice un potere realmente interpretativo, come tale attribuitogli dall’ordinamento, o qualcosa di diverso che esula dalla mera attività ermeneutica.
Va anche rammentato che la procedura in questione (la mediazione obbligatoria) è onerosa per le parti e determina un considerevole allungamento della risposta della giustizia (la esclusione dal computo ai fini della ragionevole durata del processo – prevista dal medesimo d.lvo 28/2010, invero, si ritiene non linea con l’orientamento della Corte di Strasburgo, almeno per le ipotesi di mediazione iniziata dopo la proposizione dell’azione), sicché potrebbe tradursi in un aggravio del diritto di difesa, ove disposta dal giudice nelle ipotesi in cui non è non prevista.
Non dissimilmente, ove omessa ma ritenuta successivamente doverosa dal giudice di appello o dalla Cassazione, potrebbe dar luogo e remissione in termini e rinvio al giudice di primo grado, al fine di superare la eccezione di improcedibilità essendovi stata richiesta delle parti. Egualmente si avrebbe un aggravio dei costi ed un allungamento dei processi.
Infine, non va sottaciuto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia (nella causa C-379/10) ha censurato l’attuale regime di irresponsabilità dello Stato (ancorché non dei singoli giudici) per le ipotesi di colpa lieve dei magistrati - ipotesi che certamente potrebbe essere contestata nel caso di specie, ove l’autorità giudiziaria si dovesse attribuire un potere che esula da quello strettamente ermeneutico, ed in sostanza arbitrario, pervenendo ad una decisione non corretta – affermando che con il limitare la responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 117/88, la Repubblica Italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali.

IMPOSSIBILITA’ DI UN’INTERPRETAZIONE UNIVOCA DELLA NORMA

Nel silenzio della legge, ad avviso di questo giudice, vi è una sostanziale impossibilità di una interpretazione univoca della disposizione. Il potere decisorio del giudice sconfinerebbe nella fattispecie in quello creativo del precetto, anziché limitarsi ad una interpretazione dello stesso, non essendovi alcuna indicazione normativa in merito al rapporto tra rito divorzile e giudizio di divisione nell’ottica della mediazione. Ciò peraltro potrebbe dar luogo (come sta effettivamente accadendo) ad interpretazioni divergenti o contrapposte da parte dei vari giudici di merito, determinando una mancanza di certezza del diritto.
In altre parole, alla luce della assoluta genericità della norma in questione, ritiene quindi il giudice che non sia possibile esprimersi nel senso di una chiara intelligibilità ed univoca portata precettiva della norma. Perciò una qualsiasi interpretazione si tradurrebbe in una vera e propria scelta arbitraria del giudice, che finirebbe con il sostituirsi al legislatore, piuttosto che farsene mero interprete. Non vi sono invero ad avviso di questo giudice riferimenti “ermeneutici” – né di carattere letterale, né sistematico, né logico - che possano giustificare una univoca interpretazione.

PREMESSA SULLA RILEVANZA COSTITUZIONALE DEL DUBBIO ERMENEUTICO: LA MANCANZA DI CERTEZZA DEL DIRITTO INTEGRANTE UNA VIOLAZIONE DELL’ART. 6 CEDU

Sono noti gli impatti economici (e non) che le sentenze della CEDU hanno avuto sull’irrisolto problema della ragionevole durata del processo, e che hanno portato alla normatizzazione della c.d. legge Pinto.
Ritiene questo giudice che costituisca un’altra e diversa questione, altrettanto preoccupante e del tutto sottostimata nell’ordinamento italiano, che potrebbe portare anch’essa ad una elevatissima casistica di condanne per la Repubblica Italiana, in qualità di parte aderente alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. Ci si riferisce alla violazione dell’art. 6 della Convenzione EDU sotto il profilo del “deaut seurit juridique”, cioè della certezza del diritto.
Invero una moltitudine di questioni ermeneutiche sono affrontare – a causa della scarsa determinazione, della non univocità di significato ed intellegibilità delle norme – in termini assolutamente diversi dalla giurisprudenza, non esclusa la Suprema Corte di Cassazione, financo a Sezione Unite.
La funzione di nomofilachia attribuita alla Cassazione a Sezioni Unite, del resto, è uno strumento solo in parte dirimente, per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, alla luce della irrisolta questione della durata dei processi, l’eventuale decisione delle Sezioni Unite interviene in genere ad anni di distanza dal momento in cui si crea il dubbio ermeneutico, costringendo le parti a rivolgersi alla autorità giudiziaria in un clima di incertezza giuridica, ciò che di per sé – ad avviso di questo Tribunale – implica una violazione dell’art. 6 della CEDU. Ciò anche in considerazione del fatto che nell’ordinamento italiano non è consentito al Giudice di rimettere direttamente la questione interpretativa alle Sezioni Unite della
Suprema Corte di Cassazione, in funzione nomofilattica. In secondo luogo la decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite non è comunque vincolante per le pronunce successive (né sono mancati revirement delle medesime Sezioni Unite, come già sottolineato), sicché nemmeno dopo il più autorevole pronunciamento gli utenti della Giustizia possono ritenersi certi della regola giuridica da seguire, essendo comunque soggetta a possibili, diverse, interpretazioni.
Ne consegue che gli utenti della giustizia non hanno, nell’ordinamento giuridico italiano, una certezza delle regole giuridiche da applicare, stante la possibilità di soluzioni completamente diverse a seconda dell’interpretazione fornita dall’organo giudicante, che potrebbe portare (come non di rado accade) a soluzioni diverse o addirittura diametralmente opposte dinanzi a fattispecie uguali.
Orbene, tale incertezza integra ad avviso di questo Giudice una violazione della Convenzione EDU che merita di essere rimessa alla attenzione del Giudice delle Leggi, per la verifica della compatibilità delle norme di riferimento con l’art. 6 della Convenzione EDU. La giurisprudenza della Corte EDU è molto chiara sul punto (Broniowski v. Poland [GC], no. 31443/96, e 151, ECHR 2004-V; Păduraru v. Romania, no. 63252/00, e 92, ECHR 2005-XII (extracts); and Beian v. Romania), a far data dall’importante sentenza Broniowski. Il principio implica che chi è sottoposto ad una normativa debba sapere cosa è permesso e cosa no, cosa è obbligatorio e cosa non lo è  in base a norme chiare e di costante applicazione. Solo in tal modo è rispettata l’aspettativa in un diritto certo ed univoco, senza il quale si perde il concetto stesso di diritto inteso quale regola generale da seguire. In sostanza la norma perde la sua stessa ragion d’essere. Detto in altre parole, l’affermazione del principio di non incertezza del diritto risponde alla esigenza di far fronte alla crescente complessità del diritto, di fronte alla quale la certezza giuridica appare come un baluardo al quale appigliarsi per mantenere una unità e, in definitiva, il senso ultimo della regola giuridica, idoneo ad evitare l’arbitrio.
In questa prospettiva, del resto, si sono già espressi altri Stati aderenti alla Convenzione EDU, trovando anche un riferimento specifico nella propria Carta fondamentale. Ad esempio il Conseil constitutionnel francese si è espresso nel senso dell’obbligo per la legge di esprimere – pena l’incostituzionalità - regole intellegibili, precise e non equivoche (decisione n. 2004-500 DC del 29 juillet 2004, cons. 13): (testualmente: «Il incombe au l’islateur d’exercer pleinement la complence que lui confie la Constitution et, en particulier, son article 34. A cet ard le principe de clart de la loi, qui dloule du m e article de la Constitution, et l’objectif de valeur constitutionnelle d’intelligibilit et d’accessibilitè de la loi, quidoule des articles 4, 5, 6 et 16 de la Déclaration de 1789, lui imposent d’adopter des dispositions suffisamment prises et des formules non uivoques afin de prémunir les sujets de droit contre une interpreation
Contraire la Constitution ou contre le risque d’arbitraire, sans reporter sur les autoritè administratives ou juridictionnelles le soin de fixer des riles dont la dermination n’a été confiée par la Constitution qu’à la loi.»).
In Italia il riferimento costituzionale va rinvenuto ad avviso di questo Tribunale negli artt. 3, 24 e 111 e nel riferimento normativo di cui all’art. 6 e 13 della Convenzione EDU, come recepito nell’ordinamento italiano – secondo l’insegnamento della Consulta – ai sensi degli artt. 111 e 117 della
Costituzione, oltre che negli artt. 47 52 e 53 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE).
Ne consegue che le norme prive di sicuro ed univoco significato e valore precettivo sono contrarie alla Costituzione, sempre ad avviso di questo Giudice, per il combinato disposto con le norme sovranazionali di principio.
In particolare, simili norme – frutto di un legiferare in termini eccessivamente generico - non sono in grado di ottemperare né all’obbligo costituzionale dettato dal principio di eguaglianza innanzi alla legge
(sancito dall’art. 3 della Costituzione), né alla finalità di assicurare la tutela dei diritti ed interessi legittimi (tutelati dall’art. 24 della Costituzione), né alla regola del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., inteso nella accezione più lata, né infine, al principio di sicurezza giuridica di cui all’art. 6 Convenzione EDU come interpretata dalla Corte di Strasburgo e come recepito ai sensi dell’art. 52 della CDFUE.

SULLA AMMISSIBILITA’ DELLA QUESTIONE

Il Giudice delle Leggi si è espresso, in passato, sulla non proponibilità di questioni ermeneutiche alla Consulta (ex plurimis: sentenze 419/05 e 466/2000), non potendosi la Corte Costituzionale sostituirsi al giudice nella interpretazione corretta di una norma.
Va a maggior ragione rilevato che la questione che si pone oggi alla attenzione della Consulta non è – come nelle ipotesi in cui si è in passato pronunciata – meramente propositiva di una interpretazione piuttosto di un’altra, ma, al contrario, è atta ad evitare la violazione (che implicherebbe una possibile condanna della Repubblica Italiana per “defaut de sicurité juridique”) del principio di certezza giuridica in base all’art. 6 della Convenzione EDU, nel caso in cui il Giudice a quo dovesse decidere in base a dettato normativo non chiaro e la cui determinazione in concreto del significato fosse di fatto attribuito in modo arbitrario al singolo Giudice, stante la scarsa chiarezza ed intelligibilità della norma (palesata peraltro dai contrasti giurisprudenziali già in atto) o addirittura sconfinasse in un potere - di fatto - creativo della regola.
Sicché si tratta di vero e proprio dubbio di compatibilità costituzionale della norma di cui all’art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 con l’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo dalla sentenza Broniowski in poi, e con gli artt. 47 e 52 della CDFUE.
Tale questione deve essere quindi portata alla attenzione della Corte Costituzionale, in base al meccanismo generale indicato dalla Corte stessa, per le ipotesi di contrasto con le norme CEDU o con norme UE recanti principi generali.

SULLA ESPERIBILITA’ DEL RIMEDIO DELLA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE PER CONTRASTO DELLA NORMA INVOCATA CON LA CONVENZIONE EUROPEA PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDO LA CONSULTA.

Invero, la Corte Costituzionale ha in più occasioni (ex multis: Corte Cost. 347/2007 e 348/2007) precisato che la Convenzione EDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Ad avviso della Consulta, la Convenzione EDU è configurabile come un trattato internazionale multilaterale – pur con caratteristiche peculiari – da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico
italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri, rilevando che il giudice a quo aveva correttamente escluso di poter risolvere il dedotto contrasto della norma censurata con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo egli stesso a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con la seconda.
In altre decisioni (Corte Costituzionale 311/2009 e 317/2009) il Giudice delle leggi ha anche precisato che la Corte Costituzionale non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con ciò uscendo dai confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l'apposizione di riserve, della Convenzione, ma può valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni compiute dalla Corte in tutti i giudizi di sua competenza.
In definitiva, facendo leva sul dettato dell’art. 117 della Carta fondamentale, la Consulta ha rilevato che il parametro costituzionale è espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la
conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Pertanto, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna
contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all'indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l'interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato. Sulla integrazione da parte delle norme della CEDU, quali norme interposte, dell'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Alla stregua di tale ragionamento, il giudice nazionale è tenuto a rimettere alla Consulta la questione sottostante la decisione da adottare, posto che implica la soluzione di un problema di contrasto tra la norma interna e la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

LA RILEVANZA DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EDU NELL’ORDINAMENTO INTERNO, SECONDO LA CONSULTA

Vanno anche svolte le opportune precisazioni in merito alla valorizzazione del potere interpretativo dei giudici nella giurisprudenza costituzionale è tale che, nella sentenza n. 239 del 2009, la Corte si spinge fino al punto di ritenere che l’esperimento del tentativo d’interpretazione conforme alla Convenzione europea sia una condizione necessaria per la valida instaurazione del giudizio di legittimità costituzionale, ripetendo lo schema che ormai da anni utilizzato a proposito del dovere di interpretazione conforme a Costituzione. Per superare il vaglio di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, quindi, il giudice deve dimostrare che il tenore testuale della norma interna o il diritto vivente eventualmente formato sulla legge interna si oppongono all’assegnazione a tale legge di un significato compatibile con la norma convenzionale.
Peraltro, come la stessa Corte Costituzionale esplicitamente ha sottolineato, in relazione alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il giudice comune non ha soltanto il dovere di interpretare il diritto interno in modo conforme a quello internazionale, ma deve fare ciò tenuto conto della norma convenzionale come interpretata dalla Corte di Strasburgo.
In realtà già prima dell’intervento della Consulta, il vincolo dell’interpretazione adeguatrice si era affermato presso i giudici comuni, come confermano, tra le altre, le sentenze della Corte di cassazione a Sezioni Unite da n. 1339 a n. 1341 del 2004, ove si impone ai giudici nazionali di non discostarsi dall’interpretazione che della Convenzione dà il giudice europeo. E’, tuttavia, oggi, che la Corte costituzionale eleva questo compito a vero e proprio vincolo per il giudice comune.
Con riferimento alle sole norme convenzionali, la Corte costituzionale precisa che esse vivono nell’interpretazione che viene data loro dalla Corte europea (così la sent. n. 348 del 2007, ma similmente anche la sent. n. 349 del 2007), nel senso che la loro “peculiarità”, nell’ambito della categoria delle norme internazionali pattizie che fungono da norme interposte, “consiste nella soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità sono vincolati ad uniformarsi” (sent. 39 del 2008).
Quando viene in rilievo la Convenzione europea, su tutti gli organi giurisdizionali nazionali, Corte costituzionale compresa, ciascuno nell’esercizio delle proprie competenze, grava un vincolo interpretativo assoluto e incondizionato alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo per la determinazione dell’esatto contenuto del vincolo internazionale.
La rigidità di tale condizionamento ermeneutico rappresenta il risultato di un iter le cui tappe fondamentali si rinvengono nelle sentenze 348 e 349 del 2007, 39/2008, 311 e 317/2009 e 187 e 196/2010.
Nelle sentenze nn. 348 e 349 emergeva una “funzione interpretativa eminente” da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo che si sostanzia anche nel fatto che “le norme della CEDU vivono nell’interpretazione che viene data loro dalla Corte europea”. La consacrazione del ruolo della giurisprudenza avviene, quindi, per via giurisprudenziale: è una Corte a legittimare un'altra Corte (con affermazioni, si noti, suscettibili di assumere valenza generale, e quindi, all'occorrenza, anche autoreferenziale)]. Al riconoscimento della funzione interpretativa eminente della Corte Edu segue un passaggio in cui si afferma che “[s]i deve (...) escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali”, dovendosi “[t]ale controllo [...] sempre ispirar[e] al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, comma 1, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione”.
Si poteva, quindi, ancora legittimamente dubitare della sussistenza di un monopolio esclusivo, in capo alla Corte europea dei diritti dell’uomo, circa il significato da attribuire alla CEDU, senza possibilità alcuna, da parte dei giudici comuni e specialmente da parte della Corte costituzionale, di integrare quel significato.
Qualche tempo dopo i dubbi sul punto si sono dissolti quasi del tutto. Il Giudice delle leggi, infatti, nella decisione n. 39 del 2008, facendo dire,  attraverso la nota tecnica di citazione manipolativa del precedente, quanto in realtà non si diceva nelle decisioni del 2007, ha sottolineato che tali decisioni avevano precisato che la peculiarità delle norme della CEDU nell’ambito della categoria delle norme interposte risiede “nella soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità  sono vincolati ad uniformarsi”.
Un vincolo interpretativo, dunque, assoluto e incondizionato alla giurisprudenza della Corte europea in capo ai giudici comuni ed alla Corte costituzionale per quanto riguarda l’inquadramento dell’esatta portata della norma convenzionale. Vincolo che non emergeva, invece, dalle decisioni del 2007 e che viene invece ora confermato dalle decisioni nn. 311 e 317/2009, ove espressamente si dice che alla Corte costituzionale, salvo ovviamente la possibilità che una norma CEDU sia in contrasto con la Costituzione, “è precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve” (sent. 311/09).
La funzione interpretativa della Corte europea è diventata dunque talmente eminente da escludere qualsiasi intervento da parte di altri giudici, comuni e costituzionali, volto ad una possibile integrazione del significato delle disposizioni della Convenzione oggetto di interpretazione da parte della Corte di Strasburgo.
Alla valorizzazione del vincolo interpretativo nei confronti della giurisprudenza della Corte europea si accompagna, tuttavia, il riconoscimento della possibilità che, in determinati casi, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo attribuisca agli Stati membri la facoltà di discostarsi dagli orientamenti di Strasburgo. Ciò può avvenire, come specifica la sentenza n. 311, in relazione, ad esempio, alla possibilità che per “motivi imperativi di interesse generale, il legislatore si possa sottrarre al divieto, ai sensi dell’art. 6 CEDU di interferire nell’amministrazione della giustizia”.
La posizione della Corte costituzionale in merito al vincolo ermeneutica gravante sul giudice interno rispetto alla giurisprudenza della Corte Edu risulta recentemente confermata nelle sentenze nn. 187 e 196 del 2010.
Nella prima delle due pronunce la Corte, dopo aver richiamato e ripercorso la giurisprudenza della Corte di Strasburgo pertinente alla disposizione che veniva in rilevo nel caso di specie, afferma che: “Lo scrutinio di legittimità costituzionale andrà dunque condotto alla luce dei segnalati approdi ermeneutici, cui la Corte di Strasburgo è pervenuta nel ricostruire la portata del principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione, assunto dall’odierno rimettente a parametro interposto, unitamente all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale, che la stessa giurisprudenza europea ha ritenuto raccordato, in tema di prestazioni previdenziali, al principio innanzi indicato (in particolare, sul punto, la citata decisione di ricevibilità nella causa Stec ed altri contro Regno Unito)”.
Nella sentenza n. 196/2010 la Corte afferma che “dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli articoli 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo – afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto”.
Le affermazioni contenute nelle sentenze del 2010 sono indicative di come progressivamente il ruolo della Corte di Strasburgo sia cambiato, non tanto nelle modalità di azione, che si concretizzano nell’accertamento e nella condanna delle violazioni della Convenzione, quanto nel significato sempre
maggiore assunto dalla sua attività interpretativa. Come è noto, non esiste per la CEDU un meccanismo analogo a quello previsto dall’art. 267 TFUE (ex art. 234 TCE), che permetta al giudice di rivolgersi alla Corte qualora abbia un dubbio interpretativo, ma la prassi ha determinato nel tempo un legame altrettanto forte, legame che oggi è espressamente riconosciuto dalla Corte costituzionale.
Il quadro complessivo che risulta dalle due sentenze del 2010 si avvicina, quindi, a quello che era stato delineato da chi aveva previsto che “nella misura in cui si afferma negli ordinamenti nazionali il principio di supremazia delle norme internazionali su quelle interne, almeno nella forma del pacta sunt servanda, le pronunce della Corte europea finiranno con l’assumere carattere vincolante, sia nel senso di determinare l’invalidità delle norme interne ritenute incompatibili con la Cedu, sia nel senso di orientare in funzione della giurisprudenza della Corte l’interpretazione delle norme nazionali”.
L’affermazione secondo cui, in generale, “le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo” e, in particolare, “le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea” (sicché “tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”) sembra quindi aver portato a compimento e, per così dire, alle sue estreme conseguenze un percorso di acquisizione di consapevolezza del ruolo della CEDU nell’ordinamento interno.
Ciò non può che valere anche per il principio della certezza del diritto (il defaut de surit juridique).

LA RILEVANZA DELLA CONVENZIONE EDU NELL’ORDINAMENTO INTERNO, NEL CASO DI SPECIE

Ciò premesso, va sottolineato anche che, nel caso di specie, vi è una diretta interconnessione anche con la CDFUE.
Il ragionamento relativo al “defaut de surit juridique” che si è pocanzi prospettato è quindi egualmente valido ed operante nell’ordinamento interno anche per le ulteriori motivazioni che seguono.
Invero, la Carta Europea dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) ha valore di trattato per gli Stati membri, in base al trattato di Lisbona.
Tale carta CEDFUE disciplina il rapporto con la Convenzione EDU e la relativa giurisprudenza precisando all’art. 52 comma 3 che “3. Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa.
Orbene, l’art. 47 della CEDFUE dispone che “Ogni individuo i cui diritti le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.
Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare.
A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia.
La corrispondenza con la Convenzione EDU è evidente e palese dal raffronto con l’art. 6, che recita “1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (..)” e con l’art. 13 “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.
Ne deriva che i principi elaborati dalla Corte EDU in relazione alla Convenzione EDU, ivi compreso quello relativo al “defaut de surité juridique” trovano applicazione nell’ordinamento italiano, anche al di fuori delle materie di competenza della Convenzione stessa. In tali ipotesi, ad avviso di parte della Giurisprudenza, si potrebbe procedere a disapplicazione della norma interna direttamente da parte del giudice nazionale. Anche ove si volesse aderire a tale orientamento, la questione, però non verrebbe comunque in rilievo nel caso di specie.

SULLA NECESSITA’ DELLA RIMESSIONE DELLA QUESTIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE

Nella fattispecie, difatti, si pone il problema di come procedere quando il contrasto della norma legislativa interna sussiste non già nei confronti di una norma comunitaria direttamente applicabile, a sua volta idonea a fornire la regula juris per il caso concreto (poiché allora il contrasto si risolve con la applicazione di quest’ultima, e la “disapplicazione” (o non applicazione) della norma interna, da parte del giudice comune), ma nei confronti di principio di diritto comunitario o della Convenzione EDU.
Ci si deve domandare cioè se, in questo caso, il giudice possa o debba risolvere da sé il contrasto, negando applicazione alla legge interna, non perché utilizza in sua vece una norma comunitaria di diretta applicazione, ma solo perché la legge interna gli appare viziata dal conflitto con i principi del diritto comunitario in combinato disposto con il diritto della Convenzione EDU.
Il problema è particolarmente delicato perché il contrasto riguarda di principi “comunitari” di contenuto sostanzialmente corrispondente ai principi costituzionali, posto che si tratta di diritti fondamentali (ipotesi che sussiste automaticamente quando si chiama in causa la applicazione della Giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo).
Infatti, in questa ipotesi, se si ammette che il giudice possa disapplicare la legge nazionale perché la ritiene in contrasto con i principi comunitari/CEDU in tema di diritti, senza sollevare questione di costituzionalità si verifica un paradosso: il giudice, al quale il nostro ordinamento preclude sia l’applicazione sia la disapplicazione della legge sospetta di incostituzionalità obbligandolo a investire della questione, in via incidentale, la Corte costituzionale, potrebbe invece, in alternativa, e sostanzialmente per gli stessi motivi, disapplicare direttamente la legge per contrasto con i principi comunitari.
Nella giurisprudenza comune è dato già di rinvenire alcune pronunce di giudici di merito che ragionano così nei riguardi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: la Convenzione, in quanto richiamata dai Trattati, è diritto comunitario (e ciò varrà ancor più una volta costituzionalizzata la Carta dei diritti, e una volta realizzata l’adesione formale dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti, come previsto dall’art. 7, paragrafo 2, del progetto di trattato costituzionale); il diritto comunitario prevale sul diritto interno, e il giudice è abilitato e tenuto ad applicarlo, disapplicando la legge interna contrastante. Ergo, il giudice può direttamente disapplicare la legge italiana che contrasta con la Convenzione europea.
Dato il carattere generale e di principio proprio di molte norme della Convenzione, però questo modo di ragionare conduce ad avviso di questo giudice ad instaurare un nuovo sistema, parallelo, di sindacato di costituzionalità sulle leggi, realizzabile in modo diffuso dai giudici comuni.
Ma ciò porrebbe sostanzialmente nel nulla il principio del nostro ordinamento, secondo cui sono accentrati nella Corte costituzionale il potere e il compito di privare di efficacia le leggi ordinarie in contrasto con la Costituzione: principio a cui non sarebbe implausibile attribuire la portata di principio supremo dell’ordinamento costituzionale, sicché non pare applicabile.
Mentre, infatti, il conflitto fra norme interne e norme comunitarie di diretta applicazione può essere risolto in termini di separazione dei due ordinamenti, applicando la norma comunitaria e conseguentemente negando applicazione alla norma interna incompatibile, il conflitto della norma
interna con principi sanciti nella Costituzione e insieme nel diritto comunitario UE in relazione alla Convenzione EDU (come quelli in tema di diritti fondamentali) non può essere risolto se non attraverso un espresso sindacato di legittimità sull’atto legislativo ordinario: e questo, nel sistema vigente, spetta, per quanto riguarda gli atti di legislazione ordinaria, statale o regionale, alla Corte costituzionale, essendo precluso al giudice comune sia applicare, sia direttamente disapplicare le norme legislative riguardo alle quali sorga il dubbio sulla loro compatibilità con norme di rango sovraordinato.
Resta quindi in ogni caso interamente in capo ai giudici comuni – così come essi debbono sempre interpretare le leggi in conformità alla Costituzione – il potere-dovere di interpretare le leggi, quando operano in campi coperti dal diritto comunitario, in conformità con quest’ultimo, come accertato in
ultima analisi dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, oltre che, in conformità alle norme della convenzione europea sui diritti, quali risultano dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Pur non potendo escludersi, nemmeno in un contesto siffatto, incertezze o contrasti di giurisprudenza in un campo delicato com’è quello della garanzia dei diritti fondamentali, si eviterebbero comunque conseguenze “eversive”dei criteri cui il nostro costituente si è ispirato in tema di rapporto fra giurisdizioni comuni e giurisdizione costituzionale, oltre che foriere, in pratica, di imprevedibili sviluppi (o avventure) giurisprudenziali.

SULLA CONFORMITA’ ALLA COSTITUZIONE ED ALLE NORME COMUNITARIE DELL’ISTITUTO DELLA MEDIAZIONE.

Ovviamente tale soluzione presuppone la soluzione, a monte, della questione di legittimità costituzionale e di compatibilità con le norme UE dell’istituto della mediazione introdotto dalla d.lgs. 28/2010.
Viceversa, dovrebbe procedersi a disapplicazione dell’istituto della mediazione nel suo insieme, senza entrare nello specifico del difetto di certezza di diritto costituzionalmente rilevante riguardo all’ambito applicativo della norma.
In proposito, ed attendendo gli insegnamenti della Consulta sulle questioni già sollevate da altri uffici giudiziari, questo Giudice ritiene di limitare i quesiti alla attenzione della Consulta a quelli sopra evidenziati sinteticamente considerato, in ordine alle questioni pendenti innanzi alla Consulta, che la previsione di uno strumento quale il tentativo obbligatorio di conciliazione è finalizzata ad assicurare l’interesse generale al soddisfacimento più immediato delle situazioni sostanziali realizzato attraverso la composizione preventiva della lite rispetto a quello conseguito attraverso il processo, risultando, per tale via, perfettamente coerente anche con i principi e gli obiettivi propri del diritto comunitario.
Il fatto che il D.lgs 28/2010 non preveda la necessaria assistenza di un difensore, infatti, non significa che alla parte sia vietato avvalersi di un avvocato nel corso della procedura e, comunque, come ha osservato attenta dottrina, la mediazione opera su un piano esclusivamente negoziale, potendo, sotto tale profilo, essere avvicinata alla disciplina dell’arbitrato, in cui non è prevista per le parti l’assistenza obbligatoria dell’avvocato. La costituzionalità della normativa citata, per tutte le ragioni sopra illustrate, permette di affermarne anche la compatibilità con il diritto comunitario, per come evincibile anche dalla sentenza del 18 marzo 2010 della Corte di giustizia dell’Unione europea, pronunciatasi (nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08 e C-320/08) proprio sulla previsione, da parte dello Stato italiano, di un tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di telecomunicazioni. La Corte di Lussemburgo, infatti, ha affermato che il diritto alla tutela giurisdizionale, quale diritto fondamentale dell’individuo, può anche soggiacere a restrizioni, purché le stesse risultino proporzionate e funzionali al soddisfacimento di interessi generali, quali, appunto, il decongestionamento dei tribunali o la definizione più spedita e meno onerosa delle controversie in materia di comunicazioni elettroniche.
Inoltre, il procedimento di mediazione obbligatoria non preclude la tutela cautelare e la trascrizione della domanda giudiziale; produce, sulla decadenza e sulla prescrizione, effetti simili a quelli propri della domanda giudiziale. Il sacrificio in termini di tempo e i costi imposti dalla mediazione obbligatoria, del resto, sono potenzialmente giustificati e resi ragionevoli dal vantaggio che può ottenersi in caso di esito positivo della procedura. Infine, non sembra profilarsi neppure il denunciato eccesso di delega. L’articolo 60 della legge 69/2009 nulla, infatti, ha previsto in ordine alla facoltatività od obbligatorietà del preventivo ricorso alla mediazione e la scelta della obbligatorietà fatta dal Legislatore non è una scelta irragionevole, in quanto non si pone fuori dalla tradizione processuale italiana, che conosce, come noto, varie ipotesi di tentativi obbligatori di conciliazione. La costituzionalità della normativa citata permette di affermarne anche la compatibilità con il diritto comunitario, per come evincibile anche dalla sentenza 18 marzo 2010 della Corte di giustizia dell’Unione europea, pronunciatasi (nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08 e C-320/08) proprio sulla previsione, da parte dello Stato italiano, di un tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di telecomunicazioni.
Per queste ragioni si ritiene che l’istituto in sé sia conforme (ed anzi auspicato) alle normative sovranazionali, sicché non si pone alcun problema di compatibilità dell’istituto con l’impianto costituzionale e normativo europeo, ma solo una questione di determinazione dell’ambito di applicazione sotto il profilo del difetto di “securité juridique”.
In questa ipotesi non può il giudice procedere alla disapplicazione totale di un apparato normativo conforme alle leggi e ai principi cui è gerarchicamente sottoposta, ma deve limitarsi ad interessare il Giudice delle Leggi alla verifica di costituzionalità relativamente al profilo di interesse.

QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELL’ART. 5 D.LGS. 4 MARZO 2010, N. 28 - ATTUAZIONE DELL'ARTICOLO 60 DELLA LEGGE 18 GIUGNO 2009, N. 69, IN MATERIA DI MEDIAZIONE FINALIZZATA ALLA CONCILIAZIONE DELLE CONTROVERSIE CIVILI E COMMERCIALI (GU N.53 DEL 5-3-2010)

Per questi ragioni si ritiene di dover sollevare di ufficio, in quanto rilevante e non manifestamente infondata, la questione della legittimità costituzionale dell’art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 – attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali (GU n.53 del 5-3-2010) in relazione all’art. 24 della Costituzione ed all’art. 6 della CEDU, come interpretata dalla stessa Corte di Strasburgo, nella parte in cui non prevede una regola certa ed idonea ad evitare un vero e proprio “defaut de seurité juridique” (mancanza di certezza del diritto) nei confronti delle parti del processo.
***
In subordine, si ritiene di dover sollevare di ufficio, in quanto rilevante e non manifestamente infondata, la questione della legittimità costituzionale dell’art. 372 comma 2 e 3 c.p.c. in relazione agli artt. 24 e 111 della Costituzione e all’art. 6 della CEDU, come interpretata dalla stessa Corte di Strasburgo, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di ogni ordine e grado di richiedere preventivamente una pronuncia delle Sezioni Unite in funzione nomofilattica, analogamente a quanto previsto dall’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in relazione alle pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia Europea in merito ai dubbi interpretativi di norme comunitarie. Solo in tal modo, invero, potrebbe evitarsi che nel caso di specie le parti si trovino a chiedere l’applicazione di una norma dal contenuto certo senza essere a conoscenza prima della decisione stessa della reale portata precettiva della norma, in presenza di dubbi ermeneutici irrisolti, affrontando un giudizio in stato di defaut de seurité juridique contrario alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo dome interpretata dalla Corte di Strasburgo e come recepito nell’ordinamento UE ai sensi degli artt. 47 e 52 della CDFUE.
In sostanza si porta alla attenzione del Giudice delle Leggi la questione, non nuova nel dibattito sulle tecniche di redazione dei testi normativi, della conformità alla Costituzione (in combinato disposto con la Convenzione EDU) di testi legislativi dal contenuto non univoco e di non certa
interpretazione, così come già affrontato dagli organi di verifica della legittimità costituzionale di altri Paesi membri, non ultima la citata decisione del Conseil Costitutionnel della Repubblica Francese.
Per Questi Motivi
Il Tribunale di TIVOLI, sezione civile, in persona del Giudice unico dott. Alessio Liberati, visti gli articoli 137 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1984 n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza,

IN VIA PRINCIPALE

- solleva questione di legittimità costituzionale dell’articolo dell’art. art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 - attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali (GU n.53 del 5-3-2010) con riferimento agli articoli 11, 24, 111, 117 della Costituzione nonché dell’art. 6 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e degli artt. 47, 52 e 53 della Carte dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui viola il principio di non incertezza del diritto (“defaut de securité juridique”) non prevedendo una formulazione della normativa che di comprensione univoca e chiara del proprio significato;

IN VIA SUBORDINATA

- solleva questione di legittimità costituzionale dell’articolo 372 comma 2 e 3 c.p.c. con riferimento agli articoli 11, 24, 111, 117 della Costituzione nonché dell’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e degli artt. 47, 52 e 53 della Carte dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui non consente ad ogni giudice di qualsiasi ordine e grado di richiedere una interpretazione pregiudiziale alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, analogamente a quanto previsto dall’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in relazione alle pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia Europea in merito ai dubbi interpretativi di norme comunitarie.

Ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio in corso.

Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri e che venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Tivoli, 23 maggio 2012

IL GIUDICE
Dr. Alessio Liberati

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

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